I mestieri ambulanti nel Cilento

I mestieri ambulanti nel Cilento

`U Conzapiatti, `U conza `mbrelli e altri

Tra i tanti mestieri del Cilento ve ne erano di quelli a posto fisso, con regolare bottega, altri itineranti. Molti, anche bravi artigiani, giravano da casolare a casolare offrendo le loro prestazioni, ricavandone modesti guadagni consistenti in pochi soldini o, normalmente, in generi in natura.

Alcuni di quei mestieri consistevano sulla semplice prestazione manuale, altri nel baratto di merci, altri ancora in vere e proprie compravendite.

`U Conzapiatti
Il conciapiatti girava per le campagne dove veniva impiegato nella riparazione di piatti, scafe, vasi di terra cotta e ruagne (vasellame di coccio) rotti. La bravura consisteva nel bucare i cocci, con un trapano ad arco, e attaccare con mastice di gesso e filo di ferro, in modo da renderli ancora efficienti.
La semplice riparazione di un piatto, che poteva essere usato ancora per anni, per il prezzo che richiedeva, era semple meno costosa che comperarlo nuovo.
Tuttora, nei vecchi vasci, locali terranei, si trovano vecchi oggetti riparati dal conzapiatti, sicuri reperti di museo della cultura contadina.
All'occorrenza `u conzapiatti si prestava anche a riparare gli ombrelli.

`U conza `mbrelli
I conciaombrelli, specie nelle botteghe a posto fisso, erano i barbieri che avevano singolare maestria per quelle riparazioni. Ma il conzambrelli ambulante portava la sua opera a casa del cliente, riparando ombrelli che da anni venivano usati, sino ai limiti delle loro possibilità. Poi alla fine, dallo stesso conciaombrelli, veniva acquistato un nuovo ombrello che, per la maggior parte dei casi, trattavasi di uno degli ombrelli usati che l'ambulante portava sulle spalle.

Il barbiere
Il mestiere del barbiere era esercitato, per lo più nei grossi centri, con propria bottega. Le sue prestazioni erano quelle del taglio dei capelli, della rasatura delle barbe, ma anche di conciare ombrelli e di apporre sanguisughe o fare salassi, su prescrizione medica, agli ammalati di polmonite. Nel salone, nei giorni di festa, affluivano i clienti dai piccoli centri o nuclei abitati sparsi per le campagne.
Normalmente era consuetudine degli uomini di radersi almeno una volta la settimana, o anche ogni quindici giorni, con un vecchio rasoio che veniva affilato su di un pezzo di ardesia. Per il taglio dei capelli correvano anche alcuni mesi tra un taglio e l'altro. Il padre provvedeva al taglio dei capelli dei figli ed anche dei vecchi che non potevano più muoversi di casa. Per la sistemazione dei capelli sulla nuca, si seguiva il segno della coppola o anche di una scodella.
Non mancavano, però, barbieri ambulanti che davano le loro prestazioni a casa di clienti che di tanto in tanto si facevano sbarbare e tagliare i capelli.
Come già si è detto, il barbiere, anche se ambulante, conciava anche gli ombrelli.

Il fotografo
Molti furono i fotografi ambulanti che girarono per le campagne del Cilento. Anche nelle più lontane e sperdute contrade tra i monti, piacque sempre farsi ritrarre e fare fotografare i membri della propria famiglia singolarmente o in gruppo.
Molte famiglie tra gli oggetti loro cari conservano fotografie di antenati di cui hanno perduto il ricordo, sia dei nomi che del rapporto di parentela. Altri in quadretti mantengono appesi alle pareti vecchi dagherrotipi del secolo passato che, in molti casi, ci tramandano l'aspetto dei costumi dell'epoca.

Il pasticciere
Nelle grandi ricorrenze familiari, specie nei matrimoni, i pasticcieri ambulanti venivano soventemente ingaggiati. Essi, qualche giorno prima della cerimonia, si recavano a casa dei festeggiati preparando dolcetti di vari tipi. Al pasticciere dovevano essere forniti farina, uova, latte, zucchero, mentre ai vari coloniali ed essenze provvedeva lo stesso pasticciere. Tutti in famiglia prestavano l'aiuto che veniva richiesto e, nel forno acceso a temperatura voluta, venivano cotti i dolcetti.

`U conzacauràre
Anche il mestiere dello stagnino veniva esercitato a casa dei clienti, e veniva denominato conzacauràre. Egli veniva vivamente richiesto perché, essendo la stoviglieria di cucina quasi tutta di rame, periodicamente occorreva stagnare i fondi delle pentole per evitare possibili avvelenamenti da rame. Con l'occasione si facevano stagnare anche le posate di ferro, e si riparavano pentole rotte.

`U ramàro
Di tanto in tanto, col suo carretto carico di oggetti di rame, transitava il ramaio che forniva pentole nuove. Gli acquisti non mancavano e la cucina si riforniva di nuove pentole. Sul costo dell'acquisto, quasi sempre si barattava il pezzo di rame da sostituire.

`U molafuórfece
`U molafuórfece, l'arrotino o molaforbici, circolava per il Cilento spingendo faticosamente il suo marchingegno, facendolo rotolare sulla ruota che avrebbe dovuto azionare la mola.

Gli arrotini meno poveri circolavano con un carrettino tirato da un asino. Anche questo artigiano itinerante era atteso dai suoi clienti. Anche se al contadino non mancava una cota per affilare i suoi attrezzi di mestiere, spesso si aveva bisogno dell'arrotino per dare una sistemazione alla coltelleria di casa, specie delle forbici che volevano una mano addestrata per la loro molatura.

`U zìngaro
`U nzìngaro o zìngaro, girovagando per il Cilento, periodicamente passava dai suoi clienti. Egli era molto bravo nei lavori in ferro ed in campagna gli attrezzi avevano bisogno di manutenzione. Particolarmente si impegnavano per ferri di aratro, del frantoio, scalpelli, puntilli, cardini, succhielli, carrucole, forchettoni, ed altro. Agli zingari si potevano chiedere i lavori più vari e ad essi ci si affidava per le tempere dei metalli degli attrezzi di lavoro consumati o spezzati. In questo campo si può affermare che una tempera al metallo data da uno zingaro si poteva dire perfetta. Ancora in molti vasci si notano varole, penne di zappe consumate e azzareate, cioè riallungate, con un pezzo di acciaio, saldato col fuoco e a colpi di martello. Dopo decenni di lavoro, le azzareature si sono solo in parte consumate, ma giammai si sono più dissaldate. Gli zingari erano anche molto abili nel costruire ottimi "scacciapensieri".

`U pezzàro
Il pezzàro, il pezzaio, il raccoglitore di stracci, ritirava stracci vecchi, ferro e metalli vari, ossa di animali ed oggetti fuori uso, dando in cambio qualche pezzo di ruagna (oggetto in terra cotta) e se ci fosse stato presente qualche bambino, un fischietto di terra cotta. Il termine si applica anche ai venditori ambulanti di stoffe e vestiti in genere.

`U piattàro
Il piattàro era colui che con un piatto di fichi di pessima qualità o di poco conto, dava il corrispettivo in piatti. Per una insalatiera o una scafarea o una piatta (grosso piatto di ceramica o di ferro smaltato), le trattative si prolungavano all'infinito e, alla fine, restavano tutti soddisfatti.

`U sapunàro
`U sapunàro era colui che ritirava olio non del tutto commestibile, pagandolo con pezzi di sapone. Anche in questo caso, accanite discussioni si prolungavano sul deprezzamento dell'olio e la bontà del sapone da parte del saponaro.

Nel Cilento, proprio perché si poteva disporre di olio, le donne producevano sapone in grande quantità per l'uso familiare, ma la novità dell'acquisto era una variante alla vita quotidiana, perciò non macava mai nel vascio una vesenèdda (anfora di olio non buono), in attesa del sapunàro che, se tardava più del solito, costituiva un pensiero nell'attesa.

`U mureàro
Il mureàro si presentava poco dopo la campagna della molitura delle olive, per fare acquisto di mòrea, cioé la feccia depositata in fondo agli ziri dal nuovo olio. Anche il moreàro pagava la mòrea con pezzi di sapone o anche con denaro.

`U tartaràro
Il tartaràro per l'acquisto del tartaro, si apprestava a raschiarlo personalmente dalle botti, nelle quali si infilava albilmente, attraverso la riola, il mezzule ovvero il portellino del recipiente.

Il tartaro acquistato veniva racchiuso in un largo fazzoletto di colore blu a fiorellini bianchi, fazzoletto che è passato nella proverbiatica paesana, per le sue dimensioni, come `u fazzuletto r'u tartaràro.

Il tartaràro pubblicizzava la sua presenza con la tradizionale voce: `u tartararo c'a pacienza. Davvero il suo mestiere richiedeva molta pazienza, ma forse, anche per la pazienza che egli aveva nelle trattative con le donne sul valore del tartaro, prima e dopo il recupero dalla botte.

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